LAVORARE DURANTE E DOPO IL CANCRO : una risorsa per l’impresa e per il lavoratore
Il tema delle condizioni occupazionali dei malati di cancro rappresenta oggi una questione avente una forte valenza sociale ed un crescente impatto economico per i lavoratori, le imprese ed i sistemi di Welfare.
Infatti, da un’analisi condotta a cura della Fondazione INT di Milano, si stima che ogni anno i nuovi casi di tumore (uomini e donne nella fascia 20-64 anni) sono 9.800 nel Lazio, di cui 9.300 occupati e 17.000 in Lombardia, di cui 16.400 occupati.
Una diagnosi di cancro, già di per sé terribile da affrontare, incide significativamente anche sulla vita lavorativa, sull’occupabilità dei lavoratori ammalati, ma anche sui colleghi e sull’ambiente lavorativo in generale.
E’ questo il tema principale del convegno intitolato “PRO JOB: Lavorare durante e dopo il Cancro”, tenutosi ieri a Roma e che ha visto la partecipazione, oltre che di rappresentanti di importanti Associazioni del terzo settore, anche di personalità di spicco nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro, di aziende e di importanti Università Italiane, riunitisi per affrontare il delicato tema delle condizioni occupazionali dei malati di cancro.
Secondo i dati riportati, circa il 41% dei soggetti con patologie oncologiche risulta occupato al momento della diagnosi di tumore (lavoro a tempo indeterminato, determinato, autonomo, con forme flessibili). Di questi, il 78% dichiara di aver subito cambiamenti sul lavoro a causa della malattia. Infatti, nell’esercizio dell’attività lavorativa il 37% circa ha dovuto fare assenze, il 30, 9% suo malgrado ha ridotto il rendimento, il 10,7 % ha messo da parte i propositi carriera, mentre solo l’8% è ricorso al part—time previsto dalla legge. E’ inoltre possibile stimare che in Italia quasi 85.000 sono le persone che sono state licenziate, costrette alle dimissioni, oppure a cessare la propria attività o che comunque hanno perso il lavoro negli ultimi cinque anni a seguito delle conseguenze della diagnosi di tumore.
E non solo: le conseguenze della malattia si ripercuotono anche sul caregiver, ossia sulla persona che fornisce assistenza all’ammalato oncologico e che nel 63% dei casi è un familiare.
Insomma, si tratta di un fenomeno con un fortissimo impatto sociale oltre che economico e sul quale, secondo l’On. Maurizio Sacconi (Senato della Repubblica), intervenuto al convegno in veste istituzionale, bisogna assolutamente intervenire attraverso una politica di ‘”Adaptability“, ossia attraverso un reciproco venirsi incontro tra datore di lavoro e lavoratore, allo scopo di conciliare i tempi di lavoro con i tempi di cura.
Tale obiettivo, prosegue l’On. Sacconi, è sicuramente perseguibile anche attraverso la contrattazione collettiva (si guardi ad esempio la tutela accordata dal CCNL Commercio in favore dei lavoratori affetti da patologie oncologiche) oltre che attraverso l’adozione a livello di Welfare, di strumenti specifici, rivolti sia al lavoratore che all’ azienda.
La conciliazione dei tempi di cura con quelli lavorativi, secondo Gabriella Pravettoni (Professore Ordinario di Psicologia all’Università degli Studi di Milano nonchè membro dell’Istituto Europeo di Psiconcologia) è fondamentale, soprattutto se si considera che continuare o riprendere a lavorare dopo una diagnosi di tumore non solo aiuta il lavoratore dal punto di vista economico e sociale, ma è una vera e propria ‘”esigenza vitale, con valenza terapeutica”.
Secondo recenti ricerche infatti, per il 97% dei lavoratori con patologie oncologiche è importante continuare a lavorare, sebbene soltanto il 7% dichiari di conoscere i propri diritti, ossia quali siano le tutele e gli strumenti approntati dalla legge per affrontare questo delicato momento della vita lavorativa e familiare.
Secondo Michele Tiraboschi, Professore Ordinario di diritto del lavoro presso l’Università degli Studi Di Modena E Reggio Emilia, si tratta di tutele che restano purtroppo ancora poco conosciute e poco applicate nelle realtà aziendali, nonostante l’Italia risulti essere uno dei Paesi più all’avanguardia in tal senso.
L’applicazione di queste misure viene spesso lasciata alla buona volontà dei singoli.
Occorre invece improntare, secondo Tiraboschi, un vero e proprio “Welfare della Persona“, attraverso una conciliazione delle esigenze del lavoratore, dell’azienda e le politiche di Welfare pubbliche.
Bisogna cioè andare oltre le azioni mirate semplicemente all’assistenzialismo e puntare invece alla valorizzazione della persona, del singolo, la cui produttività non può essere più vista in maniera standardizzata ed astratta, secondo la vecchia concezione del rapporto di lavoro, bensì basata sul valore della singola persona all’interno del contesto lavorativo e dell’attività.
In questa prospettiva, spunti interessanti per le aziende potrebbero venire proprio partendo dalle ricerche e dai lavori svolti in questo ambito ipotizzando, ad esempio, iniziative formative per le aziende quale supporto alla gestione dei casi in azienda di lavoratori con patologie oncologiche e invalidanti.
Ancora una volta, la collaborazione tra le istituzioni pubbliche, le parti sociali e le associazioni di volontariato di settore può rappresentare un punto di svolta in un ambito così delicato e che purtroppo coinvolge non pochi lavoratori ed aziende in Italia.