Servono criteri chiari prima di prescrivere medicinali che allungano la vita
Chi soffre va aiutato a capire quali sono i casi in cui l’utilizzo di una cura non necessaria si può percuotere sui malati stessi e sull’intera collettività.
Poter partecipare alla laurea di un nipote, al matrimonio di una figlia, fare l’ultima vacanza con la famiglia o trascorrere ancora un Natale con i propri cari… desideri che non hanno prezzo. Il valore di un nuovo medicinale, che ha un costo esorbitante per il Servizio sanitario ma consente di vivere una manciata di mesi in più, per pazienti e familiari è davvero inestimabile.
L’esperienza di Elisabetta Iannelli ( Segretario Generale FAVO )
«Senza considerare che non è possibile prevedere se da una terapia il singolo malato trarrà un giovamento “nella media”, ovvero la sua sopravvivenza verrà prolungata di qualche mese come indicano le statistiche relative alle sperimentazioni, o superiore (arrivando a un anno o più), com’è naturale sperare quando il tumore t’interessa direttamente». A raccontare il punto di vista di chi il cancro lo vive sulla propria pelle è Elisabetta Iannelli, segretario generale della Federazione delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (Favo) e vicepresidente dell’Associazione Italiana Malati di Cancro (Aimac). Quando aveva 24 anni Iannelli si è trovata a combattere contro una neoplasia. Oggi ha superato i 45, è sposata e ha una figlia, sta bene e, da avvocato, si è specializzata nella tutela dei diritti dei malati. «Conosco benissimo il valore di una terapia — dice Iannelli — perché 15 anni fa sono stata salvata da un farmaco innovativo che era stato da poco approvato all’estero, ma non era ancora entrato nella pratica clinica in Italia. Mancava un ultimo passaggio burocratico. Il mio oncologo chiese alla casa farmaceutica di poterlo avere per “uso compassionevole”, perché l’unica alternativa era comprarlo di tasca mia all’estero. Oggi posso dire che quel medicinale mi ha salvato la vita. Era però uno di quelli che hanno fatto la storia, portando la guarigione a migliaia di pazienti».
Non tutti i farmaci sono uguali
Non tutti i farmaci hanno lo stesso strepitoso successo. Per una molecola che cambia completamente le sorti dei malati, ce ne sono centinaia che hanno un effetto meno prorompente. In tempi di crisi tocca fare i conti anche su questo e parlare di “sostenibilità del sistema” a chi ha un genitore, un fratello, un partner o un figlio malato di cancro. A chi lotta in prima persona, sperando di poter veder crescere i propri bambini o godersi gli anni della pensione. Favo e Aimac da anni sollecitano medici, aziende produttrici e istituzioni ad affrontare il problema e assumersi le proprie responsabilità. «Il numero di malati è in aumento, i tagli in sanità riguardano inevitabilmente anche l’oncologia — prosegue l’avvocato —. Quello che noi chiediamo è che sul fronte dell’organizzazione sanitaria si vada a incidere sugli sprechi, che esistono e non sulla parte migliore del sistema, che funziona. E che i pazienti siano aiutati a comprendere la loro responsabilità sociale, perché l’utilizzo di una cura non necessaria o inutile si ripercuote sui malati stessi e sull’intera collettività. Non ci si deve accanire nel pretendere a tutti costi un ulteriore trattamento, quando invece è più opportuno concentrarsi su cure palliative e antalgiche per migliorare il tempo restante. Certo, è fondamentale che a guidare pazienti e familiari, con delicatezza e spiegazioni esaurienti, siano gli specialisti (oncologi, radioterapisti, chirurghi, magari con l’aiuto di psicologi), perché il momento è delicatissimo e l’emotività alta».
La delicata fase delle fasi terminali della malattia
Il punto cruciale è quello della discussione delle cure negli stadi più avanzati della malattia. Numeri alla mano, ben un quarto dei fondi impiegati per la terapia di ciascun malato viene sborsato nell’ultimo anno di vita; di questi fondi il 40% è erogato durante l’ultimo mese. I medici, lo si sente ripetere da anni nei convegni scientifici internazionali, devono imparare a comunicare meglio ciò che è utile e ciò che non lo è nelle fasi terminali e più critiche della patologia. Troppo spesso si finisce per prescrivere “un altro ciclo” per non spiegare alla famiglia che “non c’è più nulla da fare”. Qualcosa di utile, invece, lo si può fare sempre: ci sono le cure palliative e quelle contro il dolore, che rendono migliore la vita del paziente e spesso finiscono per allungargliela. Ma di frequente, queste cure, vengono usate solo nelle ultime settimane di vita, mentre sarebbe assai utile anticiparle. E anche il passaggio dall’ospedale all’hospice o alle cure domiciliari va coordinato meglio, perché sovente, purtroppo, la dimissione equivale a un “abbandono”, in cui è difficile trovare i riferimenti giusti. Così, oppressi dalla paura e dal dolore, molti finiscono per peregrinare in cerca di un’ulteriore, magari “miracolosa”, cura.
Fonte: Vera Martinella per corriere.it